
Mi sono laureato in Filosofia presso l’Università di Cagliari con una tesi su La questione delle favole antiche tra Seicento e Settecento.
Ho successivamente iniziato ad insegnare e contemporaneamente ho frequentato i corsi SSIS estendendo l’abilitazione all’insegnamento.
La mia esperienza con il centroScuola Pirandello ha ormai più di vent’anni di vita e attualmente vi insegno Filosofia, Storia, Italiano e Scienze Umane.
Penso di continuare finché non se ne accorgono...
Sono sempre stato abbastanza scettico sulla possibilità di imparare ad essere un insegnante. Ho sempre pensato che l’insegnamento non fosse una tecnica acquisibile ma, piuttosto, un talento innato, frutto di misteriose alchimie neuronali e di una somma di elementi eterogenei che avevano per lo più a che fare con le caratteristiche individuali dell’insegnante.
Il mio stesso caso personale sembrava confermare quest’opinione. Non avevo certo progettato di fare l’insegnante; non mi sembrava di avere le doti di comunicazione necessarie per stabilire un rapporto con gli allievi e mi conoscevo abbastanza (ritenevo) per sapere di avere una certa riluttanza ad assumere ruoli da leader nell’ambito di una relazione. Mi riconoscevo altresì doti di ascolto e disponibilità ma le giudicavo più adatte a compiti differenti rispetto a quelli di un insegnante. A dirla tutta e in poche parole, mi pareva di avere tutte le caratteristiche necessarie per diventare uno di quegli insegnanti che si fanno “mangiare la pastasciutta in testa” dai propri studenti. Era ovvio che non fossi ansioso di verificare l’esattezza delle mie supposizioni.
Quando mi si offrì la possibilità insegnare accettai per amicizia, soprattutto, e per l’assicurazione che la sofferenza sarebbe durata solo quattro mesi.
La notte, dopo aver tenuto la prima lezione, non riuscii a prender sonno. Non riuscivo a capacitarmi di quello che era successo. Com’era possibile che tutto fosse andato bene! E bene non era ancora una parola sufficiente; a meraviglia era andato… Quando finalmente mi addormentai pensavo: “sono nato per fare l’insegnante”.
Col passare del tempo questa prima impressione si rafforzò e la facilità, la naturalezza, del rapporto con i ragazzi e, più in generale, con l’ambiente della scuola in cui insegnavo mi convinsero a proseguire. Quando si presentarono i primi ostacoli avevo ormai accumulato una sufficiente esperienza e convinzione per gestirli nel modo più efficace. L’insegnamento era talento nutrito di esperienza, e le tecniche d’insegnamento per essere efficaci si dovevano innestare, come mezzi e strumenti, su una naturale inclinazione.
Sono felice di insegnare e penso che vedere il viso di uno studente illuminato dalla comprensione delle ragioni di un evento storico, o dalla soddisfazione di essere scampato alla complessità di un concetto filosofico finalmente acquisito sia un impagabile privilegio di questo straordinario lavoro.
È un lavoro che non si può controllare fino in fondo; ci si impegna e solo dopo si vede quel che succede; si deve imparare ad accettare l’altro e cioè lo studente; i suoi tempi, i suoi bisogni, i suoi problemi. E bisogna anche accettare se stessi e che non ci sono modi di insegnamento “per tutte le stagioni” e adattarsi a diventare un insegnante diverso rispetto a quello che sei sempre stato perché lo studente è diverso da quelli che hai sempre avuto.
Non mi piace definire una volta per tutte quale sia lo scopo della scuola o come io intenda la scuola; la realtà è che ogni giorno propone qualcosa di diverso e a volte collaboriamo con lo studente a costruire il cittadino, altre volte a costruire il lavoratore, a volte ci andiamo giù pesanti con le nozioni perché servono pure quelle e, insomma, il frutto di tutto questo lavoro in comune è quello di veder sorgere infine un essere umano capace di proseguire da solo o con altri che non saremo più noi ma anche grazie a noi.
Preferisco definire la scuola in negativo: ciò che non vorrei mai fare è collaborare con lo studente a costruire il suddito di domani.
E alla fine di questo pezzo di vita in comune, arrivati ai saluti, ringraziare lo studente per ciò che, lo volesse o meno e ne fosse cosciente o meno, mi ha insegnato a sua volta.